Il terremoto che ha devastato Haiti il 12 gennaio ha causato più di 200 mila morti. La comunità internazionale ha preso coscienza del disastro a poche ore dal sisma, ma ora, a quasi un mese di distanza, le sfide che la ricostruzione pone si fanno più chiare e sempre più pressanti.
La ricostruzione di Haiti rappresenta una grande occasione, non solo per l’isola colpita dal terremoto il 12 gennaio, ma per l’Occidente stesso. Haiti ha l’opportunità di ripensare la propria struttura economica e sociale, di darsi un nuovo assetto politico istituzionale e di procedere senza indugi sulla via della democratizzazione. L’Occidente ha la possibilità di mostrare un volto che vada al di là delle dichiarazioni di principio e delle più o meno lodevoli iniziative dello star system. Soprattutto, può istituzionalizzare un nuovo modello di cooperazione internazionale. Utopia in un periodo di forte crisi economica e di rivendicazione di mai troppo dimenticati diritti economici nazionali? Forse. O forse no. Solidarietà ma non tutela: il punto di vista degli haitiani – Sulle pagine di Alter Presse, agenzia di informazione haitiana fondata nel 2001, Maryse Noël Roumain, saggista con un Ph.D. in psicologia conseguito a New York, sostiene che il sisma ha decretato il collasso dello Stato, «uno Stato restio ad accelerare il processo di democratizzazione e incapace di sviluppare le strutture necessarie e i servizi di base per la popolazione. […] È questo Stato in fallimento che sarà chiamato a far fronte all’immensa opera di ricostruzione del Paese». La Roumaine auspica quindi un processo di ripensamento e ridefinizione. Sandro GalantiIl Dritto
«La nostra nazione ha senza dubbio bisogno della solidarietà internazionale e della costituzione di un fondo di ricostruzione stimato in svariati miliardi dollari, ma possiede già altri capitali come la sua cultura, le sue risorse umane, la sua volontà di lavorare». Tutti fattori che «bisogna considerare e utilizzare per creare uno Stato efficiente, che servirà da veicolo per la prosperità e la sicurezza», per non rimanere «intrappolati nella spirale della povertà e dell’instabilità».
Un concetto analogo è quello espresso da Jean-René Lemoine, attore e drammaturgo haitiano che vive e lavora a Parigi. «Non si tratta di mettere Haiti sotto tutela, come fosse un parente matto da far interdire» scrive su Internazionale. «Laggiù ci sono persone capaci di agire. Bisogna consultarsi con loro per progettare la ricostruzione. Se sarà fatto, ci sarà speranza. Ricostruire un vero luogo di vita è un progetto straordinario, che può portare a una grande svolta».
Tuttavia, se non consideriamo le necessità di base (cibo, alloggio e medicinali), è probabilmente il senso di straniamento a farla da padrone ad alcune settimane dal sisma. Un senso di straniamento espresso bene da Frederic Dupoux, fotografo haitiano tra i più attivi su Twitter e tra i primi a dare l’allarme il 12 gennaio. «È una strana sensazione, cammino intorno all’aeroporto e mi sento come se non fossi più a casa». Mentre nelle strade si respira una miscela insolita di aiuto reciproco e paura, ben rappresentate dalla solidarietà discreta e diffusa tra le persone di cui ha parlato lo scrittore Louise-Philippe D’Alembert sulle pagine del Corriere della Sera e dalle risse per il cibo, disperse con spray urticanti e proiettili di gomma dalle forze Onu.
Entrata in scena del settore privato – Per risollevarsi è necessario aver fiducia nelle proprie forze e incentivare l’iniziativa privata, come auspicato da Bill Clinton alla quarantesima edizione del World Economic Forum (Wef), che ha avuto luogo tra il 27 e il 31 gennaio a Davos.
Sull’isola, le principali associazioni professionali avevano già manifestato la propria disponibilità, almeno a livello di intenti.
L’Associazione professionale delle banche (APB), di concerto con la Repubblica di Haiti, ha annunciato la progressiva ripresa delle operazioni bancarie e ha garantito di tutelare in primo luogo situazioni difficili come quelle di clienti che hanno perso i loro documenti di identità o che desiderano recuperare il denaro di parenti rimasti vittima del terremoto. Randolph Rameau, presidente dell’Associazione nazionale dei prodotti petroliferi (ANADIPP), ha garantito che i prezzi del carburante non subiranno aumenti. Analogamente, uno dei responsabili dell’Associazione degli Industriali di Haiti, Richard Coles, ha fatto sapere che i prezzi dei prodotti alimentari rimarranno invariati, dichiarazione smentita almeno in parte dal Coordinamento Nazionale per la Sicurezza Alimentare (CNSA), che ha invece già registrato un rincaro, in particolare per il riso e i fagioli, e che prevede una stabilizzazione o un ribasso dei prezzi solo se gli aiuti alimentari esterni continueranno a essere distribuiti in grandi quantitativi e con continuità.
La principale criticità non risiede però soltanto nella riattivazione delle attività produttive, ma nell’instaurazione di un nuovo assetto economico che alimenti un circolo virtuoso in grado di sostenere i consumi e incentivare la produttività. Il settore tessile, ad esempio, è risultato il meno toccato. Dei 28.000 dipendenti del settore, 22.000 hanno già ripreso le loro attività. La coreana Pacific Sports (il cui core business è rappresentato dalle magliette per Wall-Mart e per J.C. Penney) si è fermata un solo giorno dopo il terremoto. Il suo caso ben rappresenta le contraddizioni dell’attuale sistema economico, se è vero che le retribuzioni dei suoi operai presentano uno scostamento dell’80% tra quanto dichiarato dalla società e quanto realmente percepito (15 dollari al giorno contro meno di 3 che finiscono realmente nelle tasche dei lavoratori).
E poi c’è il turismo, che rappresenta il 40% del Pil. Quel turismo che ha portato la Independence of the Seas, nave di proprietà della Royal Caribbean International, con 4.370 persone a bordo, a soli 130 km a nord di Port-au-Prince, mentre dall’altra parte dell’isola la popolazione era ancora sotto le macerie, causando non poche polemiche e dubbi nell’opinione pubblica occidentale.
Il ruolo dell’Occidente: tra cooperazione e sfere di influenza – La catastrofe di Haiti ha avuto in Occidente un impatto mediatico senza precedenti, occupando le prime pagine dei quotidiani per diversi giorni. L’Onu ha dimostrato ancora una volta di essere un’organizzazione più simile a una rete di volontari che un’efficace organismo espressione della volontà di cooperazione internazionale, capace di portare aiuti e soccorsi ma scarsamente attrezzata per mantenere l’ordine in situazioni di emergenza. Senza contare le accuse lanciate da un volontario colombiano, Camilo Monroy, all’emittente Radio W di Bogotà e riportate dal quotidiano El Tiempo. «C’è del razzismo nelle operazioni di soccorso» ha infatti accusato Monroy, citando il caso dell’aeroporto internazionale Toussaint Louverture, dove un nero con ustioni sull’ottanta per cento del corpo è stato abbandonato per portare invece aiuto a due bianchi leggermente feriti.
Per rilanciare un vero processo di cooperazione internazionale, l’Occidente non dovrà solo vincere le diffidenze delle popolazioni locali. Dovrà soprattutto superare le rivalità nazionali, che non hanno tardato a farsi vive a poche settimane dal 12 gennaio. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha infatti auspicato che gli Stati Uniti si limitino all'aiuto umanitario e non cerchino di trarre vantaggio dalla situazione di Haiti per altri scopi, stabilendo fin da ora i confini politici degli aiuti internazionali. Il presidente venezuelano Hugo Chàvez ha accusato gli Stati Uniti di occupare militarmente il territorio, seguito a ruota dal presidente del Nicaragua, Daniel Ortega, e da Fidel Castro, che ha attaccato la missione USA, dichiarando che i marines sbarcati ad Haiti «non fanno che peggiorare la situazione, mentre l’Onu tace».
Senza dimenticare quella che rimane la vera sfida per il futuro: la cooperazione con la Cina. Una Cina che durante l’emergenza ha dato prova di grande efficienza. I 50 membri del gruppo di soccorso cinese inviati sul luogo del disastro, infatti, tutti veterani del sisma di Wenchuan, nella Cina meridionale, che causò circa 100mila vittime tra morti e dispersi, hanno dato prova di un forte senso di attaccamento allo Stato, quello Stato che ora ad Haiti è percepito come assente e di cui Maryse Noël Roumain chiede una ridefinizione.
Un nuovo modello di cooperazione – Le democrazie europee hanno la possibilità di instaurare un rapporto di stretta collaborazione, rinsaldando legami con vecchi partner (Stati Uniti in testa) e cercando di fungere da collante con i nuovi (Russia e Cina), sulla base di intese e modelli condivisi, senza inasprire i rapporti con i competitor regionali (Venezuela, Cuba e Nicaragua). L’alternativa è la corsa alle sfere di influenza, l’abbandono dell’isola a se stessa, il terremoto politico dopo quello naturale, la cooperazione delle star e degli show in TV.
Una donna di 69 anni trovata viva dopo otto giorni, alla domanda di un giornalista su cosa avesse pensato lì sotto, ha risposto: «Ho parlato con il boss, Dio, e non ho avuto bisogno di esseri umani».
La speranza è che per una volta, i governi di tutti i Paesi, Occidentali o meno, si comportino da boss e cerchino di compiere un piccolo miracolo, cooperando.
Ivan Libero LinoIl Rovescio
Ricostruire Haiti: riparare al danno ed evitare la beffa - Il 12 gennaio Haiti è stata colpita da un terrificante terremoto che conta oltre cinquecentomila vittime e incalcolabili danni per il territorio. Ora, di fronte allo scenario apocalittico, il pensiero corre solidale a chi vive questa tragedia. Ma è distratto, fuorviato, contaminato da quello che i media mostrano in merito al disastro. L'Occidente, identificato come la parte ricca, potente e dominante di questo mondo, ha l'opportunità di mostrare il proprio senso umano e civico assumendosi la responsabilità non solo per ciò che concerne la ricostruzione materiale del paese, ma soprattutto ha la possibilità di ridare dignità a un popolo falcidiato per anni da conflitti interni e che già prima della calamità versava in condizioni di povertà al limite dell'immaginabile. La speranza è che non si guardi ad Haiti come a un'occasione per dare lustro alle immagini delle nazioni impegnate nei soccorsi o, ancor peggio, di arricchire le proprie casse o costituire un ennesimo stato fantoccio economicamente dipendente dall'Occidente. La speranza è l'ultima a morire, ma potrebbe essere uccisa prima.
Perché il passato identifichi il futuro - Gli haitiani dichiararono tra i primi la loro indipendenza dagli stati colonialisti, nella fattispecie la Francia, era il primo gennaio 1804. Un popolo orgoglioso di sé, coraggioso e forte che rischia ora, dopo ciò che gli è stato tolto dalla natura, di venire depredato definitivamente da quell'Occidente che, di fatto, ha sempre sfruttato Haiti per i suoi interessi economici. Solo la speranza intimamente umana può sopravvivere alla luce dei fatti. Ma illudersi che le democrazie mondiali tutelino la natura, l'indole e l'autoctonia haitiani è quasi folle. Eppure in ognuno di noi alberga questa speranza, questo desiderio che un popolo possa essere messo in condizione, da chi ne ha potere, di vivere la sua storia, ricostruire la propria identità, preservare la propria natura. Sarebbe un inizio, l'inizio di un mondo che davvero ha cura di tutti i suoi Stati e non solo dei loro profitti economici e dei loro interessi politici. È molto, molto, molto difficile che tutto ciò accada, smettere di crederci però toglierebbe tanto al nostro essere umani e non solo umanitari.
Guerre civili e pace incivile - Le lotte intestine che hanno coinvolto le popolazioni haitiane non sono nuove nel mondo. In tantissimi paesi sono in corso vere e proprie guerre civili che vengono puntualmente e volutamente ignorate dai media perché non sono interessanti, per loro ovviamente, non per noi. Così anche quella haitiana, se non fosse per la catastrofe che si è abbattuta sull'isola che ha portato alla ribalta mondiale il problema Haiti. E prima del terremoto? Chi si occupava di Haiti? Semplice, gli haitiani. Ma non bastavano a se stessi. È sufficiente dare un rapido sguardo a quanto presente alla voce Haiti su Wikipedia per accorgersi subito che la sua storia è comune a tante altre realtà dell'America meridionale, dell'America centrale e di altri stati nel mondo accomunati da una straordinaria povertà, caratteristica che rende i popoli non in grado di sostentarsi né tanto meno di difendersi. Ora, come forse non si poteva nemmeno credere possibile, la situazione è peggiorata e forse completamente precipitata. Gli haitiani sono in tutto e per tutto alla mercé dell'Occidente. Paradossale che uno dei popoli che per primi si rese indipendente dalle potenze colonialiste sia ora totalmente nelle stesse mani.
Mosca bianca o squalo bianco - Gli scenari possibili che ci si parano davanti hanno connotazioni più orientate verso un passato insostenibile che verso un futuro sostenibile. Le possibilità reali che la ricostruzione di Haiti sia l'inizio di un sistema cooperativo equo e solidale con i popoli e i territori colpiti da sventure e povertà sono a mio avviso quasi nulle. Il fatto rappresenterebbe una mosca bianca nella storia del mondo. Quello che la paura e l'esperienza invece rendono futuribile è una visione della futura condizione di Haiti non troppo distante dal reale stato precedente il sisma, preda di un potere attualmente incontrastabile e peraltro di difficile identificazione. Una nuova colonia moderna, la cui dipendenza economica contribuirà a snaturare l'indole e cambiare la storia dei popoli autoctoni a favore di un'omologazione sociale e politica vicina a quella occidentale che ne favorisca il controllo. Ai posteri l'ardua sentenza.
WeWrite, anno I, n. 2, febbraio 2010