Non una periferia ma una frontiera multietnica. Dopo i violenti scontri che hanno scosso Via Padova lo scorso febbraio, cresce il muro invisibile tra italiani e immigrati. Spaccio, prostituzione, abusivismo, degrado, etnie diverse che si contendono il territorio. La sfida dell’integrazione è davvero fallita?
Le difficoltà di un quartiere multietnico − Via Padova è da anni meta di immigrazione: prima dal Mezzogiorno e poi da fuori Europa. Storico crogiolo di nazionalità, qui ne convivono ben 50. Culture diverse, spesso foriere di criminalità e rivali fra loro, si incrociano nel quartiere più multietnico di Milano: egiziani, cinesi, filippini, peruviani, ecuadoriani. Un quartiere che ha cambiato volto negli ultimi 10 anni: oggi è un susseguirsi di negozi intestati a immigrati in 3.800 metri di strada: phone center, kebab e minimarket arabi. I problemi di convivenza si fanno sentire e gli abitanti non sono nuovi a episodi di criminalità. Integrazione, regole, sicurezza, attenzione ai bisogni cittadini: qui è meglio non parlarne. I segnali trascurati di disagio sociale − Le violenze esplose in via Padova lo scorso 13 febbraio denunciano uno scenario di diffuso disagio sociale. L’aggressione e la morte di un giovane egiziano, il conflitto etnico tra bande rivali e le reazioni violente che ne sono seguite, hanno suscitato negli abitanti della zona reazioni di rabbia e paura. Nei giorni immediatamente successivi al delitto, via Padova è stata dipinta come un girone infernale. Il clima di tensione, tuttavia, non è certo iniziato a seguito delle guerriglie urbane, eppure tutti i campanelli d’allarme hanno suonato a vuoto, complice l’indifferenza di chi avrebbe potuto intervenire prima e non l’ha fatto. Non si può ignorare un pezzo di città lasciato cadere nel degrado più assoluto. Immigrati e condizioni di vita − Per la maggior parte dell’opinione pubblica i disordini avvenuti in via Padova resteranno a lungo l’emblema del fenomeno dell’immigrazione a Milano. L’idea che il degrado in città sia dovuto alla presenza degli immigrati e che quest’ultima sia destinata a diventare un problema di sicurezza, è diventata una verità ormai stereotipata. In questo clima si consolidano i pregiudizi, divisioni e si ergono steccati. Ma chi sono gli stranieri che popolano il quartiere? Gli immigrati residenti in Via Padova appartengono a due grandi gruppi etnici: maghrebini e sudamericani. Spesso sono sottoposti a sfruttamento e vivono stipati in appartamenti 50 metri quadri da dividere in dieci. Vivono in condizioni precarie e lavorano come mano d’opera in nero. Tanti si perdono nei meandri della criminalità. Milano vede solo le risse e gli schiamazzi e chiede più sicurezza. Spesso i residenti sono costretti a barricarsi in casa; gli stati d’animo che emergono sono stanchezza, rabbia e paura. Il fenomeno delle gang di latinos − Uno degli effetti della globalizzazione è lo scontro tra gruppi culturali diversi. Le gang latine protagoniste dei recenti fatti di cronaca sono infatti un fenomeno globale, complesso e radicato, che si è diffuso con l’avvento della seconda generazione di immigrati, ovvero i figli di coloro che erano venuti per lavorare e spesso si ritrovano senza radici culturali. Gli scontri di via Padova posizionano Milano in un più vasto universo che tocca Madrid, Quito, New York, Genova, San Juan de Portorico, Barcellona, Chicago, Santo Domingo, Lima,Bruxelles. A Milano la prima gang arrivata e la più ampia e ramificata è quella dei Latin Kings: sono divisi in Chicago da una parte e New York dall’altra, e si contendono quello che ritengono il loro territorio con risse, accoltellamenti e violenza. Si tratta di ragazzi ai margini della società che si dedicano ad attività illegali come traffico di droga e armi, rapine e altro. Dietro le storie dei “latinos” spesso si nascondono problemi di integrazione. Il valore della diversità − Anno 2010. Un giorno Milano apre gli occhi e scopre un desolante scenario di immigrazione senza sapere come gestirla. I conflitti insorti sono suscitati dalla non-abitudine alla diversità, alla convivenza forzata di culture, famiglie, tradizioni, religioni diverse. Via Padova è solo un esempio tra i milioni di esempi possibili. È una delle nostre città che ha scoperto di aver perso una sfida che ci porta nel Ventunesimo secolo: l’integrazione urbana. Perché ancora alcuni fanno fatica ad accettare il fatto che un pizzaiolo egiziano o un commerciante cinese costituiscano in realtà una ricchezza. Integrazione o disintegrazione? − Rimangono delle domande: quale sarà il nostro modello di integrazione? Quale società vogliamo domani? La parola d’ordine è ferma condanna della violenza. Non accettiamo di assistere inermi a questa spirale di odio e di aggressività: morire in questo modo è oltre che drammatico, assurdo. A causa di questa chiusura al mondo e rifiuto del diverso, Milano si guarda allo specchio e si ritrova città divisa, che ha perso quella dimensione urbana patrimonio della civiltà italiana ed europea. La città invece di integrare “disintegra” chi la abita e si disintegra essa stessa. Questi fatti invece di evocare rastrellamenti e divisioni, dovrebbero indurci a riflettere sul futuro delle nostre città e della nostra società. Rabbia, devastazione, guerriglia urbana, insulti verso i sudamericani e verso gli italiani. Dopo Rosarno e Castel Volturno, è arrivato il momento di Milano. Il 13 febbraio 2010 è stato probabilmente uno dei giorni più neri di via Padova.
Il Dritto
Via Padova: immigrazione e integrazione − Un desolante paesaggio di condomini popolari, un districarsi di macchine, negozi dimessi i cui proprietari sono spesso extra europei. I cancelli sono robusti, le serrature si fanno più massicce, sui portoni sono esposti cartelli “Vendesi”. È via Padova. Una lunghissima arteria che da piazzale Loreto arriva fino ai confini con Cologno Monzese, zona popolare relativamente tranquilla. Gli immigrati che la abitano rappresentano una percentuale importante della popolazione locale. Una Babele multicolore che nel pomeriggio si anima di voci, via vai, musica araba. Dopo il tramonto scendono gli spacciatori e fanno la loro comparsa le prostitute. In fondo alla via, a significare la lontananza sociale dal centro, dalla società integrata, un campo nomadi. E pensare che il centro di Milano è a soli 10 minuti.
Sara SirtoriIl Rovescio
L’omicidio di Ahmed Abdel Aziz el Sayed Abdou (19 anni, egiziano, immigrato regolare e pizzaiolo da due anni) è sfociato in una rivolta terminata dopo circa quattro ore.
La questione sollevata rimane però lì in bella vista sopra il tavolo, come un bimbo dispettoso. Un bimbo dispettoso e bello grosso che negli ultimi 15 anni Milano ha cercato di approcciare con slogan a tolleranza zero piuttosto che con politiche efficaci, sperando forse che il bambino così poco ben educato scendesse spontaneamente dalla tovaglia e tornasse da dove era venuto.
La cartina di tornasole si confronta con i dati – Via Padova è la cartina di tornasole del livello di integrazione del capoluogo lombardo. Secondo la Camera di commercio è la strada “più straniera” di Milano, ma le attività gestite da immigrati sono soltanto una su tre. Secondo un interessante studio della Caritas «se non si tiene conto dei reati che gli immigrati commettono contro la legge sugli stranieri, che incidono per il 16,9% sulle denunce addebitate agli stranieri, rimangono 31.330 denunce che, commisurate a una popolazione regolarmente soggiornante di 3.035.144 persone, è pari a un tasso di criminalità dell’1,03%, sostanzialmente pari a quello calcolato per gli italiani».
Lo studio pone inoltre in correlazione i dati relativi alla criminalità, agli stranieri e all’età. È opinione pacifica tra gli studiosi che la fascia di età a più elevato potenziale di devianza sia quella compresa tra i 18 e i 44 anni (78,6% dei casi). «Sull’andamento della criminalità influisce il differenziale demografico della popolazione residente quanto alle classi giovani di età (quelle con maggior propensione a commettere reati), caratterizzato da una diminuzione tra gli italiani e da un aumento tra gli immigrati», senza considerare che in almeno un caso su sei, sempre stando ai dati analizzati dalla Caritas, gli immigrati sono le vittime ricorrenti dei reati violenti contro la persona.
Una sfida di seconda generazione – L’analisi risulta più complessa se si considera che i reati denunciati in Italia sono attualmente ascrivibili alle prime generazioni di immigrati, mentre non si hanno ancora dati sufficienti per analizzare il comportamento delle seconde. E sono proprio le seconde generazioni a rappresentare la vera sfida che la politica e la società civile si trovano di fronte, seconde generazioni che rischiano di rimanere intrappolate dai lacci della burocrazia. La parola d’ordine, infatti, sembra sia quella di esasperare le persone invece di accoglierle e farne dei cittadini ed elettori responsabili, come ben rappresenta il caso di Rulin Jesuthasan.
25 anni, studentessa universitaria, in Italia da quando aveva 5 anni, Rulin ha seguito l’intero percorso scolastico nel nostro Paese (elementari, medie e superiori). Suo padre ha acquisito la cittadinanza italiana dopo circa 30 anni di residenza in Italia, contro i 10 previsti dalla giurisprudenza, a causa di lungaggini burocratiche.
Quando la giovane studentessa nata nello Sri Lanka e di etnia Tamil ha chiesto la cittadinanza, in qualità di figlia di un cittadino italiano, si è sentita rispondere di fare tutta la pratica dall’inizio, alla pari di una straniera appena entrata in territorio italiano. A sua sorella è andata peggio. Al momento della richiesta della carta soggiorno da parte del padre era già maggiorenne e di conseguenza non ne ha potuto beneficiare. Attualmente gode quindi di un permesso di soggiorno per motivi di studio, con durata annuale. Al suo termine, tolleranza zero. Il punto di vista degli immigrati – Cosa devono pensare gli immigrati, che fanno i lavori più umili senza lamentarsi, che scaricano cassette di frutta all’ortomercato o puliscono gli uffici di piccole, medie e grandi aziende, che badano ai vecchi , che aprono ristoranti etnici, phone center e alimentari d’importazione, che vendono fiori nei ristoranti o braccialetti di fronte alle Università e che infrangono le leggi come gli italiani?
Secondo uno studio realizzato dal Ministero dell’Interno e presentato in occasione della Seconda Conferenza Nazionale sull’Immigrazione nel settembre 2009 a Milano, il 92,3% di loro è d’accordo con l’affermazione che gli italiani sono “in generale, brava gente”.
È interessante però notare che il 50,6% del campione pensa che gli italiani li tenga a distanza. Più di un terzo è convinto che la propria cultura non venga compresa. Il 27,3% ritiene che gli italiani non siano, in generale, rispettosi degli immigrati e addirittura il 36,9% crede che “in fondo in fondo, sono tutti razzisti” (fonte: elaborazioni Nomisma su dati Makno – Opinioni degli immigrati sugli italiani, 2007).
Sono opinioni infondate?
A Milano molti immigrati lavorano in nero e sono impiegati in grandi opere come quelle per la fiera o per il regolamento dell’ortomercato. Opere grandi che a Milano si reggono su «una grande massa di lavoro nero e di lavoro sommerso» secondo quanto dichiarato durante l'incontro "Una Città Per Tutti – Milano e la sfida dell'integrazione" da un esponente di Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie, organizzazione dedita a sollecitare e coordinare la società civile contro tutte le mafie e di cui è presidente don Luigi Ciotti.
Non si tratta solo di lavoro nero, la situazione è più grave. «Sappiamo anche con sicurezza che a gestire una parte di questo lavoro sommerso sono proprio le cooperative della ‘Ndrangheta» ha aggiunto «le quali si servono e sfruttano questi lavoratori a 3 euro al giorno, come all’ortomercato».
Integrazione: da dove partire – L’integrazione si costruisce dalle basi, riconoscendo diritti e proponendo politiche concrete, interagendo sul territorio attraverso associazioni no profit, ascoltando le necessità di italiani e stranieri che vivono gomito a gomito, mescolando le etnie nei quartieri e nelle scuole, creando spazi di incontro e di socialità come l’Orchestra di via Padova, iniziativa isolata nella via della rivolta.
L’integrazione si costruisce fruendo, dove possibile, dei collegamenti tra enti regionali ed enti locali, avanzando politiche che snelliscano la burocrazia, si costruisce più con biglietti da cento euro spesi bene che con biglietti da cinquecento gettati al vento in programmi a zero efficacia. Si costruisce con il rispetto delle regole e la certezza della pena per chi delinque. Le parole che Martin Luther King ha pronunciato quasi cinquant’anni fa, di fronte a una folla immensa, sono purtroppo ancora tremendamente attuali.
«Siamo anche venuti qui per ricordare l’urgenza appassionata dell’adesso. Questo non è il momento in cui ci si possa permettere che le cose si raffreddino, o che si trangugi il tranquillante del gradualismo. Questo è il momento di realizzare le promesse della democrazia, questo è il momento di levarsi dall’oscura e desolata valle della segregazione al sentiero radioso della giustizia, questo è il momento di levare la nostra nazione dalle sabbie mobili dell’ingiustizia razziale alla solida roccia della fratellanza, questo è il tempo di rendere vera la giustizia per tutti i figli di Dio. Sarebbe la fine di questa nazione se questa nazione non valutasse appieno l’urgenza di questo momento».
Ivan Libero Lino
WeWrite, anno I, n. 3, marzo 2010