Le città di transizione, o “transition towns”, rappresentano un movimento internazionale, attivo anche in Italia, volto alla preparazione di spazi urbani e cittadini ad una esistenza in cui si possa fare a meno del petrolio, una risorsa che al momento appare irrinunciabile, ma che è destinata a diminuire, fino a scomparire, oltre ad essere tutt’ora, così come da decenni, causa di conflitti armati e di inquinamento.
Il movimento delle città di transizione è stato fondato tra il 2003 ed il 2006 in Irlanda ed Inghilterra da parte dell’ambientalista Rob Hopkins, con l’obiettivo di preparare le comunità di tali nazioni alle conseguenze del riscaldamento globale sul pianeta e alla necessità per le nazioni di distaccarsi dal ricorso al petrolio, come carburante, materia prima di partenza nell’industria edilizia, nella lavorazione delle materie plastiche, nella produzione di tensioattivi e altre sostanze chimiche per la formulazione di detergenti e cosmetici.
L’approccio di Rob Hopkins, che con il proprio pensiero ha coinvolto in prima linea gli studenti del Kinsale Further Education College, per un mutamento degli stili di vita a livello internazionale, riguarda non soltanto la produzione di energia, ma anche gli aspetti della salute, dell’istruzione e dell’alimentazione, oltre che dell’agricoltura, con particolare riferimento alla permacultura, metodo basato sulla creazione di ecosistemi naturali integrati con la presenza e le esigenze umane.
Da un saggio nato come un’esercitazione scolastica, prese le mosse un progetto riconosciuto immediatamente come rivoluzionario, volto a porre le basi di come una città avrebbe dovuto iniziare ad organizzarsi pensando al momento in cui il petrolio non sarebbe più stato tanto largamente e facilmente disponibile, provando ad uscire da un sistema secondo cui si agisce giorno dopo giorno in base all’errata convinzione che petrolio e fonti fossili saranno disponibili in eterno.
Gli effetti di un simile errore di valutazione si trovano sotto i nostri occhi ogni giorno e sono riconoscibili nel riscaldamento globale, nell’inquinamento dell’aria e delle acqua, nel continuo ricorso a mezzi di trasporto a benzina, senza un reale e potente desiderio di svolta immediato, oltre che nell’accumulo incessante di rifiuti prodotti e di beni materiali che entro breve tempo si trasformeranno essi stessi in rifiuti.
Hopkins applica alla transizione ed ai propri modelli di città in transizione un concetto ancora poco noto, denominato “resilienza”, intesa come la capacità di un determinato sistema di resistere ai cambiamenti, anche nel momento in cui essi si presentino in maniera brusca ed improvvisa. Essa nella società industriale è al minimo, sancendone l’estrema fragilità di fronte ad uno sconvolgimento inatteso.
In una città di transizione, gli individui imparano la resilienza attraverso un distaccamento progressivo dalle fonti fossili e dal ricorso a beni alimentari, e non solo, provenienti dal mondo industriale, dando nel contempo un nuovo slancio a tutti quei servizi sociali e di autoproduzione ritenuti fondamentali. L’obiettivo consiste nel costruire tra città e cittadini una rete di relazioni, sapere e saper fare tanto forte ed elastica da potersi preparare a reagire di fronte agli urti di un mondo estremamente consumistico che dovrà presto o tardi fare i conti con l’inizio del declino di se stesso e delle risorse transitorie su cui ha costruito le proprie fragili fondamenta.
Marta Albè
WeWrite, anno IV, n. 2, febbraio 2013