Pubblicato recentemente da Prospettiva Editrice, Dio a perdere è il quarto romanzo di Giovanni Nebuloni, un libro che già dal titolo conferma la tendenza alla ricerca e alla sperimentazione linguistica che l’autore ha condotto fin dal suo primo lavoro, La polvere eterna, uscito nel 2007. Una ricerca quasi assente nel panorama letterario nazionale, e che fa di Nebuloni una sorta di pioniere della parola scritta, costantemente teso alla ricerca di un’espressività che non sia artefatta, stereotipata e perfino stucchevole, ma che possa invece passare dalla carta stampata o, perché no, dal monitor di un qualsiasi e-book reader, direttamente al lettore, fornendo in maniera in-mediata la rappresentazione visiva della situazione.
Dio a perdere – Un connubio di spionaggio e spiritualità, che ha però la sua idea centrale nella convinzione, espressa in prima persona dall’autore, secondo la quale «con il credere, in coscienza o no, di avvicinarsi a Dio, lo stesso uomo diventa e si fa Dio. Un Dio che si riduce a una sorta di variabile matematica. Un cassetto con l’etichetta Dio contenente l’uomo che pensa a Dio, una religione qualsiasi o anche una carriera o un amore. Dio come un involucro che aveva contenuto qualcosa di cui si era fatto uso. Un Dio come un vuoto a perdere». In occasione dell’uscita del suo quarto romanzo, abbiamo intrattenuto una breve e piacevole conversazione con Giovanni Nebuloni.
Con la recente uscita di Dio a perdere, ha pubblicato ormai il suo quarto libro. Eppure in una recente intervista ha dichiarato di non sentirsi affatto uno scrittore, ma di ritrovarsi maggiormente nella definizione, forse un po’ romantica, di “artista artigiano”. Si tratta per caso di un modo per prendere le distanze dalla letteratura mainstream contemporanea?
«Con mia accezione personale, “scrittore” non è solo chi si dedica all’attività letteraria con propositi artistici, ma anche una persona che ha un’esaustiva visione del mondo, accettata universalmente. Almeno per ora, mi definisco romanziere e sì, “artista artigiano”, cioè uno che lavora di fantasia e anche con martello e scalpello il materiale grezzo del blocco di marmo che diventerà un romanzo. La mia intenzione, a monte, era quella, lo è certo ancora, di avvicinarmi a tutti, non di distanziarmi da qualcuno o qualcosa e se sono qui a parlare di letteratura, significa che sono comunque in un flusso letterario».
Il suo stile è molto diverso da quello della maggior parte dei romanzi che vengono pubblicati al giorno d’oggi, potremmo considerarla una scrittura cinematografica. Non esiste secondo lei il pericolo che un approccio così diretto e per certi versi “visivo” possa impoverire il linguaggio, facendo somigliare sempre più la lingua scritta a quella parlata?
«Svolgo costantemente una mia ricerca sulla parola, sulla comunicazione. Sarà forse possibile che con ciò l’espressione venga arricchita o appesantita, ma non che venga spogliata. Nello scrivere, tengo costantemente presente che il testo deve essere scorrevole, immediatamente comprensibile e avere un ritmo, il mio e il più possibile aperto e condivisibile da chiunque. Una volta che ho soddisfatto queste imprescindibili condizioni, ho ottenuto lo scopo di “parlare con la scrittura”. Pertanto, la mia lingua scritta non sarà mai come la comune manifestazione vocale, la quale non tiene conto di scorrevolezza, immediatezza e “melodia”. Se poi “filmo”, riprendo una situazione con il mio filtro anche in un modo che, soltanto a tratti, potrebbe apparire documentaristico o giornalistico, la cosa mi sta bene, perché uno dei miei “obiettivi” è di avvicinare la letteratura al cinema».
Nel suo primo romanzo, La polvere eterna, l’azione inizia tra le vette incontaminate della Svizzera. Dio a perdere prende invece il via davanti al monitor acceso di un computer collegato in rete. Si deve leggere un certo desiderio di modernità in questa evoluzione o si tratta di una scelta puramente stilistica? Qual è il suo rapporto con la rete e con le dinamiche sociali ad essa collegate?
«Il secondo romanzo, Il disco di Nebra, inizia con un attentato al Duomo di Milano che amo molto, il terzo con un assassinio su un convoglio di una metropolitana e il prossimo, quello del dialogo di cui sopra, con un’avaria hardware nei sotterranei di una software house. Non ho desiderio di modernità. Nella attualità sono già profondamente immerso. Ho desiderio invece, se non brama, d’essere innovativo e di pormi alla testa di un’avanguardia, ho fondato la corrente letteraria “fact-finding writing”, la scrittura conoscitiva. Il mio rapporto con la rete? Ricollegandomi ancora al dialogo riportato in anteprima, la rete è la mia seconda pelle. Con la rete, è come se ci portassimo sempre appresso, a mo’ di zainetto, il mondo intero. La rete è una sorta di passepartout che apre molte porte. La rete svela verità nascoste e non dovrei apprezzarla immensamente?»
In conclusione, la domanda di rito. Quali sono i suoi progetti per il futuro? Sta già lavorando ad un nuovo romanzo o pensa magari di avventurarsi in altre forme di espressione artistica, per esempio scrivendo sceneggiature per il cinema?
«In parte ho già risposto, sto ultimando un quinto romanzo. Il sesto è in cantiere e non ho alcuna intenzione di inoltrarmi in qualcosa di diverso dalla letteratura, tantomeno nella sceneggiatura, non avrebbe senso per uno che vuole accostare la pagina scritta al video».
Olivier Gasperoni
WeWrite, anno II, n. 5, maggio 2011